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Ultime notizie :: L’omeopatia è placebo?

Articolo in corso di pubblicazione sulla rivista Medicina Naturale (novembre 2005).

Paolo Bellavite
Professore di Patologia Generale, Università di Verona
[email protected]

Ha fatto scalpore la notizia di uno studio pubblicato da Lancet [1] in cui ricercatori svizzeri avrebbero dimostrato la equivalenza tra omeopatia e placebo. Gli autori dello studio partono dalla convinzione che gli effetti specifici dell’omeopatia siano “implausibili” e che i risultati positivi finora riportati negli studi clinici siano frutto di “bias” (errori metodologici o cattiva interpretazione dei dati) nella sperimentazione o nella pubblicazione. Essi hanno raccolto 110 studi clinici omeopatici e, per fare un confronto con la medicina convenzionale, hanno estratto a caso dalla letteratura altrettanti studi clinici allopatici sulle stesse patologie (prevalentemente infezioni respiratorie, allergie e asma, ostetricia-ginecologia, chirurgia e anestesiologia, gastroenterologia, malattie artroreumatiche, neurologia). Tutti gli studi presi in esame erano randomizzati e controllati con placebo. I dati numerici raccolti e le elaborazioni statistiche sono di notevole interesse, ma le conclusioni sono a nostro giudizio criticabili. Iniziando dai risultati, essi sono essenzialmente i seguenti:

1. In entrambi i gruppi (pubblicazioni di omeopatia e di medicina convenzionale) la larga maggioranza degli studi clinici ha riportato effetti positivi del medicinale rispetto al placebo.

2. È stata effettuata un’analisi della qualità metodologica e quindi una graduatoria degli studi considerati, utilizzando come parametri qualitativi i metodi di randomizzazione usati, le procedure di mascheramento (dei medici, dei pazienti e dei valutatori del risultato) e il tipo di analisi dei dati. Solo 21 trials omeopatici (19%) e ancora meno, 9 (8%), trials di medicina convenzionale sono stati giudicati di alta qualità.

3. In entrambi i gruppi, i trials più piccoli e quelli di minore qualità riportavano effetti con maggiori benefici rispetto ai trials di maggiore qualità. Selezionando tra gli studi di maggiore qualità quelli con il maggior numero di pazienti, l’odds ratio dell’omeopatia (8 studi) è risultato 0·88 (95% CI 0·65-1·19) mentre quello della medicina convenzionale (6 studi) è risultato 0·58 (0·39-0·85). Va precisato tecnicamente che l’odds ratio è un indice statistico di efficacia, molto utilizzato nelle meta-analisi: 1 significa inefficacia, valori inferiori a 1 significano efficacia terapeutica (miglioramento), valori superiori a 1 significano peggioramento; inoltre va precisato che l’intervallo di confidenza (CI) non deve attraversare il valore di 1 perché lo scostamento dell’odds ratio sia da considerarsi significativo. Pertanto un odds ratio di 0.88 con un intervallo di confidenza 0.65-1.19 sta a indicare una tendenza verso un miglioramento, ma non statisticamente significativa.

L’interpretazione dei ricercatori svizzeri è stata la seguente (riportata letteralmente dall’abstract e ribadita nelle conclusioni): “I bias sono presenti nei trials placebo-controllati di omeopatia e di medicina convenzionale. Quando nella analisi si tiene conto di tali bias, si trova debole evidenza di effetti specifici dei rimedi omeopatici, mentre rimane una forte evidenza di effetti specifici degli interventi convenzionali. Questo risultato è compatibile con l’idea che gli effetti clinici dell’omeopatia siano effetti placebo.” In altre parole, l’analisi dei risultati, escludendo 102 ricerche su 110, è fatta in modo da arrivare ad una interpretazione che suona come una conferma della convinzione esplicitata all’inizio.

A questo studio è stata data ampia risonanza dai mass media di tutto il mondo e merita quindi di essere commentato.

1. Chiaramente i dati riportati sono in parte una conferma di precedenti meta-analisi dei trials omeopatici, le quali avevano sempre evidenziato la prevalenza di risultati positivi, ma sono in contraddizione con le conclusioni che finora avevano escluso un effetto placebo come unica spiegazione dell’omeopatia. Per quanto riguarda i risultati, a prima vista entrambi i gruppi mostrano risultati significativi in favore del trattamento “verum”, ma l’applicazione di una valutazione qualitativa mostra una tendenza a riportare risultati positivi negli studi di minore qualità (cioè quelli più soggetti a bias). Da questa osservazione generale (comune ai due gruppi di trials, omeopatici e convenzionali) si passa rapidamente a “screditare” in blocco i dati della stragrande maggioranza degli studi positivi (80% degli omeopatici e 90% degli allopatici), dando una parvenza di rigore scientifico e di equidistanza alla analisi. Ma il fatto che gli studi fossero di minore qualità metodologica non significa che i risultati fossero falsi, significa solo che essi erano meno affidabili rispetto ad altri, secondo i criteri di qualità stabiliti a priori. Ma l’operazione più discutibile, sul piano dell’utilizzo dei dati raccolti, è stata quella di estrarre, secondo un criterio quantitativo (gli studi con maggior numero di casi tra quelli del gruppo di alta qualità) 8 studi omeopatici e 6 studi allopatici: confrontando esclusivamente questi pochissimi studi, gli autori sono sono giunti alla conclusione della inefficacia dell’omeopatia. Va rilevato che la numerosità di uno studio può dipendere da moltissime ragioni indipendenti dalla qualità dello stesso, non ultima la potenza economica del committente.

2. Un altro aspetto metodologico su cui vi sarebbe molto da discutere è la scelta degli “outcome”, ovvero dei parametri con cui valutare l’importanza dei risultati. Da una parte non pare corretto utilizzare gli stessi criteri di efficacia (es. scomparsa dei sintomi, mortalità, temperatura corporea, valori di laboratorio) per due terapie così diverse: in omeopatia non sempre si valuta la risposta in base ai dati oggettivi, ma sempre si tiene in gran conto quelli soggettivi come l’energia vitale e la qualità della vita, anche a prescindere dalla intensità del sintomo primario. Dall’altra, nella valutazione delle terapie si dovrebbe inserire, oltre alla stretta “efficacia” terapeutica, anche la loro “effettività” (che comprende il gradimento della popolazione, la pratica applicabilità), gli effetti collaterali e avversi (parametro per cui tutti gli studi che hanno finora confrontato omeopatia e allopatia hanno dato grande vantaggio alla prima) e i costi. Nessuna di queste valutazioni costo-beneficio, oggi molto rivalutate anche in campo convenzionale, è stata inclusa nel tanto reclamizzato studio degli autori svizzeri.

3. Ancora più in generale, va ricordato che l’obiettivo del medico omeopata non è in primis la cura della malattia, tanto che i medicinali vengono scelti sulla base di un complesso di sintomi psicofisici considerato con criteri diversi da quelli della nosologia convenzionale. Non si tratta, come molti sono portati a credere, di una scelta ideologicamente “olistica” o di una maggiore attenzione alle esigenze del paziente, né di una maggiore attitudine etica del medico omeopata, si tratta di un preciso indirizzo metodologico coerente con la applicazione del principio di similitudine. Pertanto, ogni studio clinico che non tenga conto di questa caratteristica imprescindibile e prenda in considerazione l’efficacia dell’omeopatia, o addirittura di un singolo medicinale, “in una certa malattia” o “per un certo sintomo”, costringe l’omeopatia in una gabbia non sua e riduce inevitabilmente il significato di questo approccio. Teoricamente, in omeopatia si può sempre fare - ed è stato fatto proprio nei lavori citati dal Lancet - uno studio che ponga come outcome un parametro “convenzionale”: se si cura la persona malata nella sua globalità, c’è da aspettarsi che anche i suoi sintomi, o almeno alcuni di essi, migliorino. Tuttavia, questo “handicap” concettuale e metodologico deve essere conosciuto ed esplicitato, di esso si deve tener conto nelle valutazioni, tanto più se si va poi a paragonare l’omeopatia direttamente con l’allopatia, come hanno fatto i ricercatori svizzeri.

4. La valutazione della qualità degli studi omeopatici, nello studio svizzero, si basa su criteri messi a punto per i trials su farmaci allopatici e in particolare sul trial clinico randomizzato e controllato con placebo: formazione di due (o più) gruppi mediante scelta casuale e mascheramento della terapia effettuata (doppio o triplo cieco). Va rilevato che su questo aspetto-chiave il lavoro è alquanto elusivo e non precisa come siano stati assegnati i punteggi di qualità. La randomizzazione, comunque, è un criterio accettabile e valido per garantire la omogeneità dei gruppi di confronto, quindi è consigliabile dove possibile applicarla, anche se è ben noto che in omeopatia una procedura del genere è difficilmente realizzabile semplicemente per il fatto che essa è esercitata normalmente negli studi professionali privati. Diverso e di ben maggiore spessore è il problema della “cecità”. Questa procedura, apparentemente ineccepibile per garantire l’assenza di interferenze sulla valutazione sperimentale del farmaco, rischia di alterare profondamente la operatività del medico omeopata, soprattutto nei casi di malattie croniche, in cui è richiesto un continuo “feed-back” del paziente verso il medico che deve valutare la risposta alla terapia. La questione è stata trattata e ampiamente discussa nell’ambito della commissione ministeriale dei medicinali omeopatici, che ha concluso i suoi lavori nel maggio 2001 presentando estese relazioni al Ministero. In particolare cinque membri, sui dieci totali, della commissione (Nicola Del Giudice, Riccardo Caione, Eugenio Riva Sanseverino, Giancarlo Buccheri, Paolo Bellavite) hanno analizzato la problematica e evidenziato come l'omeopatia, l'antroposofia e l'omotossicologia presentano concezioni teoriche ed aspetti scientifici, clinici, economici in gran parte peculiari e non riducibili a quelli che caratterizzano il farmaco chimico tradizionale.[2] Qui fattori di tipo psicologico e relazionale si intrecciano in modo ancora difficilmente precisabile con i fattori legati all'effetto del medicinale, il quale è ipotizzato dipenda da modi d'azione di tipo fisico-elettromagnetico non facilmente riducibili al paradigma molecolare prevalente in farmacologia. Nessuno oggi può dire con sufficiente sostegno scientifico quanto le note procedure di mascheramento, tipiche degli studi sperimentali sui farmaci convenzionali, possano influire sia sull’esito della cura sia sulla stessa capacità prescrittiva del medico, soprattutto in terapie di casi cronici (che prevedono un complesso follow-up e un continuo flusso di informazioni fondato sulla fiducia e la comprensione tra medico e paziente). Vi è ampia letteratura che suggerisce come per terapie complesse come sono quelle omeopatiche e per l’agopuntura il trial in doppio cieco è destinato a fornire con grande probabilità molti risultati falsamente negativi o comunque a sottostimare la potenziale utilità della cura omeopatica, [3, 4] utilità che risulta nettamente da numerosi studi osservazionali (quelli eseguito “sul campo”, lasciando al medico di operare secondo la normale metodologia e salvaguardando il rapporto medico-paziente).

5. Per scendere ancora più in dettaglio sul problema del “placebo”, va precisato che esiste una notevole confusione su questo punto-chiave della azione del medicinale. Si tende ad attribuire all’effetto del “placebo” tutti quegli effetti che si notano nel gruppo di pazienti che assumono un medicinale “inerte”, detto appunto “placebo”. Questi vengono normalmente “sottratti” all’effetto del medicinale “verum” per ottenere infine il “reale” potere farmacologico del medicinale in questione. Ma si dimentica che tali effetti cosiddetti “placebo” non sono prevalentemente dovuti ad una “azione” del finto medicinale (chimicamente inerte), quanto piuttosto sono effetti detti “aspecifici” legati al miglioramento “spontaneo” dovuto alle capacità intrinseche di guarigione del soggetto. Inoltre, in qualsiasi cura ha un ruolo notevole la fiducia nel medico e la aspettativa del paziente, la sua disponibilità a “lasciarsi curare”, la sua volontà di guarigione. Tali fattori interagiscono e sinergizzano con l’azione propria del medicinale e ciò conta molto di più in quelle terapie che puntano programmaticamente alla globalità della cura piuttosto che all’intervento su un singolo organo o un singolo meccanismo biochimico. A dimostrazione di quanto queste problematiche siano attuali, in letteratura sono comparsi negli ultimi 2-3 anni lavori che sostengono che in omeopatia potrebbe verificarsi un fenomeno simile all’“entanglement” (=correlazione) descritto dalla fisica quantistica, entanglement che riunisce in una triade di interazioni il medicinale, il paziente e il medico. [5, 6, 7] Se questo ed altri modelli simili hanno una loro plausibilità, la artificiosa separazione dei tre “attori della cura” che si attua nel trial in doppio cieco è destinata a pesare in modo molto più marcato nella terapia omeopatica rispetto a quella allopatica. In tali condizioni, un confronto tra i due approcci terapeutici, fatto con criteri allopatici, non risulta né scientificamente corretto né utile.

6. La ricerca clinica in omeopatia trova ostacoli nella relativa piccolezza del mercato (di dimensioni inferiori ad 1/100 di quello dei farmaci convenzionali), nella non brevettabilità della maggior parte dei medicinali omeopatici unitari, nella totale mancanza di cattedre universitarie, nel fatto che l’omeopatia è praticamente “bandita” dai reparti ospedalieri (anche se iniziano dei tentativi di applicazione di tale terapia, a livello ambulatoriale, in ambito sanitario pubblico). Il settore è in attesa da anni di una legge organica che regolamenti la professione, l’istruzione e la registrazione dei medicinali. Per questi ultimi, una diretta applicazione all’omeopatia delle attuali regole adottate per i medicinali allopatici rappresenterebbe una forzatura della storia di questa disciplina medica e creerebbe distorsioni nello sviluppo delle loro farmacopee e metodologie. Per questo, in sede di commissione per i medicinali omeopatici si è voluto rivalutare l’importanza e la validità di altri tipi di documentazione, tra cui soprattutto gli studi epidemiologici-osservazionali, particolarmente adatti ai medicinali già in uso da molto tempo. Ciò non significa negare l'importanza della prova di efficacia tradizionale, quanto piuttosto prendere atto che tale prova sarebbe oggi conseguibile, per motivi tecnici, etici e organizzativi, solo in pochissimi casi. Inoltre, in coerenza con gli obiettivi dell’omeopatia come medicina della persona e non solo della malattia, si sottolinea l’importanza che la valutazione dei risultati della terapia tenga conto anche di variabili soggettive opportunamente valutabili come la qualità della vita e non solo della scomparsa dei sintomi della patologia.

7. La pubblicazione del lavoro di Lancet è stata rapidamente, molto più sollecitamente del solito, seguita da una diffusione ai media del mondo. Ciò, verosimilmente, è frutto di una manovra orchestrata. Da Londra Peter Fisher, direttore dell’ospedale omeopatico (convenzionato col NHS inglese) ha dichiarato alla stampa: “Avendo letto questo report, le conclusioni non mi convincono. L’interpretazione, molto strombazzata, che l’omeopatia sia solo un placebo è basata non sui 110 trials raccolti dalla letteratura, ma solo su otto si essi. Il mio sospetto è che questo report non sia obiettivo ma voglia arbitrariamente screditare l’omeopatia”. Che questa interpretazione sia molto probabile è indirettamente dimostrato dal fatto che lo stesso numero di Lancet, in altra rubrica, riporta un parere molto allarmato sul fatto che la OMS stia per pubblicare un completo dossier sull’omeopatia [8]. Prima ancora che il documento OMS sia pubblicato (e le anticipazioni dicono che dovrebbe contenere sostanzialmente una rassegna dei lavori omeopatici, che sono prevalentemente in favore di un effetto clinico reale), Lancet si premura di mettere in guardia che i lavori sono accusati di bias da molti “critics” (tra cui un certo Renckens, presidente della “Unione Olandese contro la Ciarlataneria”). La coincidenza dell’attacco al documento OMS, della pubblicazione del lavoro del gruppo svizzero, l’editoriale intitolato “The end of homeopathy” e la rapida diffusione mediatica dello stesso lasciano pensare.

8. Il peggiore bias è il pregiudizio, ovvero il giudizio basato su informazioni scarse o sul “senso comune” (es.: omeopatia = “acqua fresca”, ecc. ) e questo è dichiarato dagli stessi autori quando si dall’inizio definiscono l’omeopatia “implausible”, o quando dicono che per molti “any effects of homoeopathy must be nonspeci?c placebo effects” (va notato che “must” in inglese è un imperativo, a differenza di could o di should che sono condizionali). Il pregiudizio sta nel fatto stesso della dichiarazione di implausibilità, quando invece esistono molti lavori di laboratorio e molte ricerche di fisica che dimostrano tale plausibilità. Oggi si può affermare con molti dati alla mano (certamente non in modo definitivo e al di sopra di ogni dubbio) sia una realtà fisico-chimica del medicinale omeopatico (medicinale che comunque non è sempre in altissime diluizioni come si vuol far credere), sia una forte consistenza scientifica del principio del simile (la base dell’omeopatia). Queste evidenze, con notevoli implicazioni sullo stesso sviluppo della scienza moderna dei sistemi complessi e non-lineari, sono disponibili in letteratura [9, 10, 11, 12] [13, 14, 15] e stupisce che in un simile lavoro siano state completamente ignorate.

In estrema sintesi, la debolezza dello studio pubblicato dal Lancet sta nell’aver omesso dalla valutazione statistica gran parte dei dati della letteratura, sulla base di una unilaterale applicazione di criteri qualitativi e di una arbitraria scelta di quanti lavori considerare. Anche l’accorpare pochissimi studi, comunque molto diversi tra loro, per applicare i calcoli tipici delle meta-analisi ( di solito eseguite su tirals omogenei almeno quanto a patologia e farmaco impiegato) è una procedura che non trova concordi gli epidemiologi. La cosa che lascia più perplessi è però l’enfasi mediatica che si è voluto assegnare a uno studio che si inserisce, senza apportare novità sostanziali se non nelle conclusioni (qui criticate), in un dibattito aperto da anni in letteratura.[17, 18, 19, 20, 21]. Non vi è alcun dubbio che la ricerca in omeopatia, sia quella clinica sia quella di laboratorio, si trova a confrontarsi con problemi di riproducibilità dei dati e di correttezza metodologica, problemi che riguardano qualsiasi campo avanzato della scienza. Ma, proprio per questo, non basta certo una singola pubblicazione, fatta da un gruppo che fra l’altro non comprende omeopati tra i ricercatori, a decretare “la fine dell’omeopatia”, come titola enfaticamente l’editoriale del Lancet[16].

Questo episodio dimostra ancora una volta come la scienza proceda a sbalzi, sempre molto segnata dalle contingenze politico-economiche del momento. Lo scienziato non è esente dall’influenza del contesto in cui lavora ed il modo con cui i dati vengono raccolti, manipolati statisticamente e interpretati è quasi sempre scelto in funzione di una tesi che si vuol dimostrare. Ciò è normale e non c’è nulla da scandalizzarsi. Bene hanno fatto i ricercatori svizzeri a presentare i loro dati, comunque interessanti, e le loro opinioni. Meno bene hanno fatto tutti coloro che, sulla base di una singola ricerca dalle conclusioni opinabili come molte altre, si sono affrettati a recitare un interessato “de profundis” per una bicentenaria forma di terapia che paradossalmente sta recuperando favore nel pubblico prima che tra gli addetti ai lavori.

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